Il divenire linguistico della musica

Concepire la musica strumentale come una lingua o, meglio, un linguaggio, non ci sorprende molto visto che abitualmente si parla del linguaggio e persino della grammatica musicale, intendendo senza grandi pretese la struttura o la teoria della musica.

Ciò è il risultato del fatto che la semiologia ed i vari approcci semiologici nella musicologia hanno avuto un’influenza determinante sulla nostra coscienza, tanto che applichiamo le analisi linguistiche (considerate nella semiologia modelli eccellenti) nel campo musicale, facendone un sistema di segni. Tuttavia possiamo davvero approvare tale concetto e siamo consapevoli almeno del perché? Ripercorrendo la storia dell’estetica musicale si nota che la questione sul pro e contro, se la musica costituisca un linguaggio, rappresenta uno degli argomenti più discussi dagli inizi di tale disciplina con il celebre saggio Vom Musikalisch-Schönen (Il bello musicale) di Eduard Hanslick (1854).

Critico anti-wagneriano, Hanslick nel suo saggio concepisce la musica come arte che non esprime alcun significato oltre a se stesso, perché il senso della musica si coglie nella medesima forma musicale, nelle “tönend bewegten Formen” (forme sonoramente mosse); ed è proprio questa la sua posizione del formalismo, posizione di rottura con l’intera tradizione contenutistica almeno dal barocco fino al romanticismo. Il barocco intende infatti la musica come “discorso in suoni” (Klangrede) che deve essere diviso nelle sue parti, come prevede la retorica per un’orazione raffinata, in Exordium, Narratio, Propositio, Confirmatio, Confutatio e Peroratio, riuscendo con l’impostazione retorica a rappresentare i sentimenti come contenuto sia delle frasi che dei tempi musicali.

Nel romanticismo la musica, oltre ad essere espressione diretta dei sentimenti, diviene fonte metafisica, in quanto “lingua degli angeli” che illumina la nostra vita mediante una conoscenza soprannaturale.

Sulla base del formalismo di Hanslick la semiologia del Novecento ha costituito il concetto della musica come sistema di segni o simboli, evidenziando da un lato la mancanza di una parte principale dei linguaggi - il riferimento al mondo esterno ed extramusicale, dall’altro lato la linearità della realizzazione nel tempo, la forma convenzionale di scrittura, quella del pentagramma, e le strutture sintattiche quali frasi ed incisi. Anche se la musica ha perciò una struttura simile al linguaggio risulta che non ha nè denotazione nè lessico e di conseguenza la musica non è traducibile in altri linguaggi, in quanto un sistema simbolico essenzialmente non-verbale. Infine la musica non si assoggetta autonomamente alle regole dei modelli di comunicazione come trasmissione di messaggi perché non dispone della facoltà di riferirsi agli oggetti extramusicali.

Ma tale nozione ci potrebbe condurre a pensare che la musica non ha alcun significato, così come se ad un linguaggio mancasse la semantica.

Senza dubbio affermiamo che un brano ottiene significato attraverso le sue strutture intrinseche e il suo contesto storico; perciò siamo in grado di dedurre che la musica non ha una similitudine prestabilita con il linguaggio, musica non è linguaggio, ma in ogni brano diviene un linguaggio individuale: in vari modi e su vari livelli. L’apparire della musica ricrea tale rapporto; perciò dobbiamo tentare di stabilire individualmente quale sia la sua “linguisticità” realizzata nella produzione musicale, che viene chiamata semiosi dai semiologi. Tale processo e l’analisi della linguisticità possono essere strutturati su cinque livelli.

Nel primo livello si colloca il compositore che crea la sua musica e allo stesso tempo un linguaggio con un significato più o meno elaborato. In questa ottica ogni brano ed opera d’arte acquisiscono significato mediante un rapporto individuale con la semantica creata dal compositore o, meglio, dal soggetto estetico del brano. Da un lato collochiamo la codifica convenzionale ed arbitraria delle lettere in note, nel modo in cui nella figura sottostante si codifica la frase latina cedere cogemur in una seguenza di note, metodo antico riproposto da Athanasius Kircher (1601-1680) per descrivere la comunicazione in modo cifrato tra due interlocutori. Tale composizione di veri testi in note è talmente linguaggio che si dovrebbe dubitare se queste composizioni siano opere d’arte: infatti esse non seguono regole musicali, ma soltanto la sintassi della codifica. Tuttavia troviamo quasi in tutte le epoche tale modo di comporre: Arnold Schönberg usa un’analoga codifica quando compone serie dodecafoniche contenenti le note B-A-C-H, come aveva già fatto Robert Schumann annagrammando i nomi degli amici.

Da: A. Kircher, Musurgia universalis, Roma 1650, tomo II, liber IX, p. 362.

Sull’altro lato collochiamo il rumore, in quanto negazione del senso, che non è in nessun modo linguaggio e perciò può essere usato come “anti-senso” nella musica contemporanea.

Sul secondo livello della produzione musicale, l’esecutore può far “parlare” la musica del compositore; alcuni musicisti hanno infatti la straordinaria capacità di cambiare totalmente la musica e trasformarla in qualcosa che “parla”. Con questa coscienza Nicolaus Harnoncourt dirige musiche di epoche remote come discorsi che dovrebbero ricominciare a parlare con noi che abbiamo perduto la capacità di cogliere il significato della musica del tempo passato. Tutt’altra opinione è quella di Sergiu Celibidache, convinto che la musica non deve essere interpretata, ma che avviene attraverso la relazione acustica e conoscitiva dei suoni sovrastando ogni riflessione verbale (il celebre direttore era buddista), perciò la musica dovrebbe essere tanto meno possibile linguaggio, quanto meno razionalità.

L’opera stessa costituisce il terzo livello nella produzione musicale. Il brano può essere linguisticamente diversificato in quanto evidenzia la sua struttura sintattica, significati e stili, come p.e. le frasi musicali possono imitare quelle verbali mediante l’articolazione o si possono costruire macrostrutture come domande e risposte all’interno dei tempi. Alcune strutture in particolari epoche possono esprimere o essere associate a determinati sentimenti.

Nel quarto livello l’ascoltatore percepisce la musica e ne intende più o meno profondamente la struttura recependo l’esecuzione in chiave linguistica, fatto costitutivo per l’avvenuta comunicazione, che è una trasmissione di messaggi. Nel caso in cui l’ascoltatore non voglia percepire il linguaggio, la comunicazione non avviene. Di frequente è stato perciò sottolineato che soltanto la descrizione linguistica del significato della musica da parte dell’ascoltatore crea la semantica dei brani musicali, ma, come già detto, la costituzione del significato si manifesta su tutti i livelli della produzione musicale.

La cultura e il contesto storico-sociale, ultimo livello più generico nel quale viene eseguita o concepita l’opera musicale, recepiscono in vari modi la musica come linguaggio. Per gli antichi la musica esprime gli affetti dell’anima ed è perciò il linguaggio dei sentimenti; il barocco invece applica la retorica alla musica e costruisce una teoria completa sulla corrispondenza tra le figure retoriche e quelle musicali; nei riti delle religioni la musica ha una certa funzione spirituale con determinate caratterische linguistiche; in musicoterapia diventa mezzo di comunicazione (“linguaggio del contatto”); infine il Jazz la percepisce spesso come un linguaggio che è ricreato di continuo nell’esecuzione delle improvvisazioni.

Rispondendo alla questione iniziale, se e in quanto la musica sia un linguaggio, possiamo affermare che, per l’esecuzione di un brano, non si può in nessun modo prestabilire un rapporto tra la musica e la sua linguisticità perché quel rapporto si concretizza in ciò che vogliamo eseguire, nel processo della produzione musicale e su i suoi cinque livelli.

Capire la musica significa perciò, oltre al riconoscimento delle forme musicali immanenti, intendere come si costituisce il significato della struttura musicale nella sua realizzazione ed infine cogliere il divenire linguistico della musica.

Da: Continuum. Giornale di Informazione e di cultura musicale a cura della Scuola di Musica Giuseppe Bonamici, Pisa, 2004, no. 10, p. 1-2.